ALMARENI ART GALLERY: Vernissage della mostra collettiva ”Figures and landscapes”

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Si inaugura nel pomeriggio di oggi, domenica 5 febbraio 2023 nella ALMARENI Art Gallery a Palermo la mostra collettiva “Figures and landscapes”.

Dipinti e sculture per apprezzare nell’arte contemporanea il nuovo rapporto con il corpo e l’ambiente, inteso quale luogo della vita. Uno sguardo attraverso colori e forme che ci parlano del riflesso lasciato dalla società sugli individui e sul loro spazio: tensioni e solitudini, frammenti di un mondo in continuo cambiamento ma anche la necessità di trovare equilibrio, leggerezza e protezione per la nostra fragilità. Temi indagati con tratti sicuri, pennellate dense e materia finemente modellata.

Vernissage dalle 16.30 alle 19.30; la mostra sarà successivamente visitabile su prenotazione.
Di seguito la nota critica a cura di Massimiliano Reggiani con la collaborazione di Monica Cerrito.

Dott. Marco Cocciola

Founder  BTM SICILIA Business To Market e Almareni

Phone +39 335 6379763 – Office 091 6488737

Nota critica

“È raro in una Galleria d’Arte sentire il polso fermo e deciso del titolare che sappia opporsi alle derive del mercato, al facile guadagno, alla moda e alle tendenze. Nella quiete ombrosa della Palermo di fino Ottocento si ha quest’occasione per una collettiva all’AlmareniArt che presenta una ricca selezione di opere degli Artisti da tempo legati alla Galleria, tranne un nuovo ingresso, che fa da controcanto e permette di esaltare la coerenza e l’estetica di Marco Cocciola, fondatore dello spazio espositivo. Cocciola è allo stesso tempo collezionista, mercante e valente sportivo. Le opere in mostra riflettono chiaramente la sua personalità, legata alla sfida continua con il proprio corpo, all’incontro con altre presenze fisiche, al paesaggio che scivola velocemente attorno alla pista, a ciò che – senza null’altro voler rappresentare ma semplicemente essere – si apre al suo sguardo di estimatore dell’arte.

Mario Mancuso è il controcanto dell’esposizione: in aderenza al titolo della mostra “Figures and landscapes” presenta un paesaggio dell’anima che è allo stesso tempo figura – il tratto essenziale di un volto, gli occhi, bastano a suggerire una presenza – e scorrere del tempo. I blu, i grigi, gli azzurri sulla tela determinano una progressione temporale. Percepire i colori, le forme e le tracce che hanno lasciato diventa l’essenza di un percorso: è una somma di sguardi, di emozioni, ciò che di un momento fisico, la visione, resta dentro l’artista, si sedimenta e torna in superficie come narrazione sensoriale.

Ersilia Leonini ha una percezione plastica del pigmento, è fiorentina e il suo mondo culturale pulsa prima di tutto attraverso statue e architetture: il colore racconta e descrive, è uno strumento per rendere – attraverso gli occhi – la fisica concretezza di una realtà. I suoi corpi di donna, così evidenti, normali, spigolosi e non idealizzati, occupano lo spazio attraverso simmetrie, diventano quinte teatrali, modi per carezzare e quindi rappresentare un volume. L’essere umano è scarnato fino alla filosofia: s’interroga sul proprio esistere, tanto nudo e aperto nella carne quanto chiuso e riflessivo nello spirito.

Gli Artisti di Marco Cocciola ridanno vita alla realtà, cristallizzandola e sollevandola ad un gradino superiore, purificata e impreziosita: si confrontano, non giudicano. L’architetto messinese Antonio Amato sceglie il paesaggio concentrandolo – attraverso il suo segno grafico precisissimo – nel contrasto fra un qui ed ora – il pioppo – e un orizzonte di forme vegetali ritmate nella catena dei verdi. Vicino o lontano, fotografico o impalpabile, immediato o sospeso nel flusso della memoria. Amato raccoglie, interiorizza e dona: due piani paralleli entro cui si svolge l’intero viaggio della mente, nel suo paesaggio il candore della carta diventa dimensione temporale.

Per Linda Acquaro, architetto pugliese ma da anni attiva nella Capitale, i due poli della mostra si attraggono fino a collassare uno dentro l’altro. La pennellata è sicura ma il gioco di luci e di ombre lo è ancora di più: il volto dipinto contiene un triplice livello di lettura. È citazione di un’estetica quasi di propaganda, scultorea e senza tempo; capace di essere facilmente percepita come realtà: sicuramente un paesaggio della memoria, che ha per orizzonte l’intero immaginario collettivo. È citazione degli altipiani assolati della sua terra, capaci di modellare i lineamenti, indurirli e consegnarli all’identità del territorio. Una figura che diventa simbolo, espressione potente di un’umanità radicata nella dura concretezza d’ogni giorno.

Differente ma altrettanto distanti dall’osservatore – per una sua pudica ritrosia a comunicare – sono le opere dello scultore tedesco, ma naturalizzato siciliano, Martin Emschermann. Piccole statue in terracotta policroma, radicate nella rigogliosa e raffinata arte sacra d’Oltralpe; sono giovani donne delineate con forme di rara bellezza, vestite di moderni abiti dalle tinte vivaci e dal taglio minimalista. Sono vere, la loro naturalezza le intride di vita, di sangue e di calore. Eppure – ad uno sguardo più attento – ogni corpo si ritrae e non racconta, i gesti sono rituali o di danza, reggono pesci e tutto le riconduce ad una crisalide protettiva e intangibile che le avvolge, le rassicura, le cela all’evidenza. Ninfe d’acqua, leggendarie figlie del Reno? Emschermann si conferma Artista del mito, del sacro innervato nelle profondità silenziose dell’animo umano.

Nell’artista ragusano Alberto Criscione, invece, è la statua stessa a farsi paesaggio, strumento di relazione, elemento di un’installazione bipolare che lega l’opera all’osservatore. Suo padre giganteggiò in una parte specifica della scultura: il presepe. Il figlio – che si era formato nella bottega – preserva un tratto caratteristico di quell’arte: l’empatia. Ogni parte dell’opera si apre a chi la guarda, raccontandosi: il soffice dei capelli grazie al tessuto che li cinge, la purezza ingenua attraverso l’ostentazione quasi inconsapevole della nudità, la pelle calda e liscia viene esaltata dalla velatura che non è abito né ornamento. Un corpo acerbo, raccolto in sé stesso, intento nel proprio gesto eppure è vivido, presente, perché non sa e non immagina d’essere guardato, oggetto di un silenzioso desiderio.

Roberto Fontana, piemontese ma ormai siciliano d’adozione, mantiene una tavolozza e soprattutto un impasto del colore che è materia prima d’essere visione. Il suo colore costruisce l’immagine, ne diventa corpo, le dà concretezza. A differenza dei pittori spiccatamente mediterranei – che privilegiano la luminosità della visione – ogni pennellata di Fontana diventa narrazione, parola cromatica. Della pittura gestuale di uno dei suoi maestri – Hermann Nitsch – mantiene la scultorea volontà di lasciare una traccia. Con la differenza che, tanto il corpo quanto il paesaggio, non sono segni di una ritualità ormai conclusa bensì il riflesso di un’immagine mentale: vissuto e autorappresentazione dell’Artista stesso.

Per il trapanese Sergio Cardillo, che si forma all’Accademia di Palermo, la pittura è invece un inno alla visione. Non è difficile immaginare il suo sguardo allargarsi verso il mare e le saline per poi abbracciare l’azzurra lontananza delle Egadi, come sospese sul filo dell’orizzonte. Il colore di Cardillo, però, ha la rara particolarità d’essere intriso di memoria e non sarà mai una fotografia fatta in punta di pennello. Ogni oggetto evocato ha la propria materia, la fisicità del ricordo, il piacere dell’esperienza: la pigna d’ombra resinosa, la conchiglia madreperlacea, il piano laccato del mobiletto, la buccia liscia e lucente del melograno, quella cerosa del giallo limone.

Nicolò Bottalla, palermitano, da anni vive nella capitale ungherese Budapest. Raffinato incisore fa della linea e dello scorcio prospettico il proprio strumento d’indagine artistico. Da entrambe le città prende l’impianto architettonico, solenne e arioso, per giustificare il proprio segno che va oltre la rappresentazione. Le infilate di palazzi, le ombre di finestre e negozi vuoti, il ritmo dei balconi, delle partiture di ogni facciata barocca, diventano pretesto per rimanere in equilibrio fra la realtà urbana e il gioco dei pesi visivi. Il paesaggio per Bottalla è il filo razionale della conoscenza che descrive, raccoglie e cristallizza l’esperienza racchiudendovi poi improvvisi bisogni di libertà, come il turbine di angeli che legano leggeri la densità della terra al silenzio immobile del cielo. 

Infine “Ucraina” del professor Luigi Citarrella che ha la cattedra di scultura all’Accademia di Reggio Calabria. Nelle sue mani la materia diventa volto ma non figura, il paesaggio non è fisico ma interiore. Citarrella crea una testa che assorbe lo spazio, lo magnetizza e se ne appropria concentrando sotto le palpebre serrate e nella bocca quasi abbandonata l’agonia di una guerra che appare infinita. È un buco nero cosmico, un divoratore di materia: la rotondità della testa, il taglio geometrico della base alludono alla totalità: cerchio e quadrato, cielo e terra, mondo dei sensi e dello spirito. A questa cosmogonia si contrappone il dolore del singolo che diviene così universale: non c’è un domani, gli occhi sono stretti e chiusi, non c’è comunicazione, la bocca è apatica, immobile. L’identità – in questo caso – è tutta custodita e preservata nel profondo: di tutto quanto ha visto, vissuto e sofferto nulla trapela. È la sua zattera di salvezza, l’ultimo appiglio per trovare la forza di combattere ancora”.

Massimiliano Reggiani

con la collaborazione di Monica Cerrito

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